Mazzola e Giralucci uccisi dall’odio comunista – 17 Giugno 1974

Mazzola e Giralucci uccisi dall'odio comunista - 17 Giugno 1974Aveva tre anni Silvia Giralucci nel giugno 1974, quando le assassinarono il padre Graziano, ventinovenne, nella sede della Federazione del Movimento sociale italiano a Padova; con lui cadde anche il custode della sede, Giuseppe Mazzola. A sparare furono brigatisti rossi, poi condannati. Ma nei mesi successivo al duplice omicidio la stampa per la quale i brigatisti dovevano essere solo neri, optò per il “regolamento di conti tra fascisti”. Anche dopo, l’ombra della strage di piazza Fontana, a Milano, sommata a quella della strage di piazza della Loggia, a Brescia, gettò un’ombra sulla vicenda patavina, perché si volle ipotizzare che i brigatisti rossi avessero ucciso da giustizieri.

Così Silvia Giralucci arrivò alla prima comunione, nella primavera 1979, quando i muri grondavano la vernice delle scritte reclamanti libertà per “gli arrestati del 7 aprile”, si sentì figlia di un morto minore. Peggio: di un morto imbarazzante. Erano vari anni, del resto, che cortei dell’ultrasinistra scandivano “uccidere un fascista non è reato”. E che anche militanti della sinistra uniti nel rito del 25 aprile (1945) ripetevano in coro “piazzale Loreto, piazzale Loreto”, litania che solo a una bambina poteva parere la richiesta di un’indicazione topografica.

Ora Silvia Giralucci ha quarantdue anni. Non avendo quasi conosciuto il padre, avendo soprattutto patito del fatto che di lui fossero solo i missini senescenti a ricordarlo, lei s’è portata addosso per decenni una condizione di esule in patria. Il dolore non ha fatto di lei una vestale del Msi di allora, tanto meno di una delle forme della malinconica diaspora di quel partito. Anzi, ha imparato dal suo mestiere – è giornalista – che i morti che non contano si possono celebrare solo grazie ai non-morti che contano. E così ha costruito in una prospettiva socialdemocratica il documentario, Sfiorando il muro (quello del silenzio), presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia.

Il 2 agosto il Giornale titolava un articolo sul documentario: “Quel film scomodo sul delitto Giralucci”. In realtà il film scomodo non è, anzi è comodo per mostrare la saggezza dell’attuale sindaco di Padova. Il problema del film, rispetto a quel titolo di quotidiano, è di non essere un documentario sul delitto Giralucci: di lui si vedono solo le foto sulle pagine del Secolo d’Italia dell’aprile 1974. E un titolo – in occasione dei suoi funerali – ben più centrato: “Né oblio, né vendetta”. In questa chiave può essere guardato Sfiorando il muro, che prende le distanze dal culto funebre dei camerati postumi di Graziano Giralucci.

Silvia Giralucci si riconosce invece nel recente omaggio al padre reso dal comune patavino in occasione della recente cerimonia in via Zabarella, davanti al portone della sede missina di allora. Poche ma sentite parole: “Graziano Giralucci appartiene alla storia d’Italia”. La storia della nazione, non della fazione. Per arrivare a questo, però, Sfiorando il muro omette di raccontare il caduto per concentrarsi sul clima politico di allora. Insomma, nelle immagini d’epoca non si vedono né le vittime, né i boia. Si vedono pochi sprazzi di disordini. Riemergono invece reduci proprio delle fazioni, che non ricordano con rabbia, come sarebbe piaciuto a John Osborne: ricordano con mestizia, specie Stefania Paternò, i cui grandi occhi, allora i più belli di Padova, oggi versano lacrime, detestando lei ormai cose che sono state, ma che non erano inevitabili.

Per Silvia Giralucci, insomma, gli eroi della Padova anni ’70 non sono il padre Graziano e Giuseppe Mazzola: sono solo vittime incolpevoli, vittime per caso fino a diventare vittime diafane. Gli eroi sono altrove: un professore di psicologia militante del Pci recentemente scomparso, allora picchiato dagli energumeni dell’Autonomia; un magistrato d’ispirazione “democratica”, autore del teorema che univa Autonomia e Br; e un militante passato dall’Autonomia alla Cgil, a rischio – sempre allora – della vita. Tutte figure che entrano nella cronaca almeno quatto-cinque anni dopo l’assassinio di Graziano Giralucci e che non sono connesse all’arresto dei sicari che gli spararono.

Sfiorando il muro è solo una catarsi per l’autrice. Nulla di male, tutto di lecito e giustamente la Mostra 2012 lo ospita. Ma è come se, nel 1962, la Mostra avesse accolto un ipotetico documentario del figlio di Giacomo Matteotti (o di Giovanni Amendola o della vedova di Piero Gobetti…) non tanto sulla figura del morto e sulle responsabilità degli assassini, quanto su un professore, un magistrato e un sindacalista vissuti nella stessa città e nella stessa temperie storica. Sarebbe sembrata un’esigua giustificazione.

Maurizio Cabona