Una storia vera. In memoria di Sergio Ramelli

Una storia vera. In memoria di Sergio RamelliNovembre ‘72 . Il dottor G. cercò d’infilare la chiave nella toppa ma fu preceduto dall’apertura della porta dello studio; era Maria, l’infermiera, che l’aspettava più solerte del solito.

“Allora?” chiese con apprensione.

“Ha superato la notte.” rispose il dottor G. infilandosi nella sua stanza ed appoggiando la borsa sulla scrivania.

“Ha detto qualcosa?” incalzò l’infermiera.

“Sì, riesce a parlare, con fatica, ricorda anche qualcosa, si era svegliato al momento dell’arrivo dell’ambulanza. Quando l’ho raggiunto al pronto soccorso, ho fatto a tempo a vedere le ossa del cranio prima che lo ricucissero. Anche se dovrei esserci abituato per me è stato scioccante, poi mi sono ripreso quando ha riconosciuto la mia voce. Questa notte mia moglie l’ha vegliato per essere sicura che continuasse a respirare.” Sospirò il medico cinquantenne, guardando nel vuoto.

“Si sa chi è stato?”

“Mio figlio ha fatto dei nomi alla polizia, ha detto che al liceo lo avevano minacciato alcuni giorni prima, lo sapevamo anche noi genitori, ma non pensavamo che arrivassero a questo punto.”

“E a casa come va?” chiese ancora Maria, una triestina alta e bionda.

“Continuano ad arrivare telefonate di solidarietà, di amici , di sconosciuti, di miei pazienti, ma anche qualcuna di scherno; ad una di queste ha risposto la ragazzina, la più piccola, era sconvolta. ”

“Piuttosto – riprese il dottor G.- sono preoccupato per il secondo, lui non solo era presente ma ha visto tutto e ha anche parato alcune sprangate con la sua cartella, quelle decisive. Insiste a dire che non ha riconosciuto nessuno, ha rivelato che avevano dei passamontagna, poi da quel momento non ha più voluto parlare, non voglio nemmeno portarlo a visitare il fratello, voglio lasciarlo tranquillo, ammesso sia possibile.”

“Dottore, ci sarebbero alcuni pazienti in sala d’attesa, molti non sanno niente, li faccio passare ?” interruppe Maria.

“Son qui per questo…”

Trascorse un’ora di visite, normale routine, con il dottor G. che cercava di concentrarsi sul suo lavoro, a volte riuscendoci. Poi entrò Silvano C. , un suo affezionato paziente, un coetaneo, un tipo tarchiato che aveva una sua particolarità.

Era infatti un esperto di lotte marziali e ogni volta che si recava in studio si faceva dare dal dottor G. o da Maria un elenco telefonico ed in pochi secondi riusciva a strapparlo dal dorso con un colpo secco: la sua prestazione costituiva un motivo di divertimento ed un momento di relax, anche se ultimamente si stavano esaurendo le scorte di volumi adatti allo scopo.

Quel pomeriggio non chiese alcuna guida, nemmeno le solite ricette.

“Dottore ho saputo cosa è capitato a suo figlio, l’ho letto sui giornali, me ne hanno pure parlato degli amici” esordì.

“Sa che io ero partigiano, le ho anche detto che mi han dato la medaglia d’argento alla Resistenza, se n’è parlato tante volte. Ecco, quello che han fatto al su’ figliuolo non mi è garbato per nulla” continuò Silvano , uno che teneva ancora alle sue origini senesi. “Un’autentica vigliaccata, poi proprio a lei, ci conosciamo da vent’anni, un l’ho sopporto, perché un l’è giusto !” concluse.

“La ringrazio, lo so che lei è una persona molto sensibile” cercò di schermirsi il dottor G.

“Dottore, son qui per un preciso motivo. Ne ho parlato stamane con alcuni compagni della mi’ sezione, che sono d’accordo. Noi si va a dare una lezione a quei ragazzi che han fatto del male a su’ figlio. Sa che io so usare bene le mani, non gli si fa danni, solo che dopo non avranno più voglia di aspettare qualcuno sotto casa. I miei compagni sanno che il su’ figliuolo l’è di destra, come dire , l’è un po’ fascista, ma mi dicono che han fatto la Resistenza per ‘un vedere queste porcate.”

Il dottor G. abbassò lo sguardo, rimase un attimo come a pensare, anche se la decisione era già stata presa. Poi replicò: “La ringrazio, veramente, ho capito la finalità della sua proposta, ma non me la sento di accettare, anche se forse… ma ho scelto di fare il medico e mai posso chiedere di fare del male a qualcuno. Grazie ancora.”

Ci fu un attimo di silenzio.

“Dottore lei è una brava persona, tutto questo le fa onore, io volevo solo riparare ad un grave atto che veniva dalla mia parte, non mi riconosco in questi giovani, proprio ‘un mi riconosco” disse Silvano C. e si accommiatò ciondolando la testa.

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Tante volte mi sono chiesto cosa sarebbe accaduto se mio padre avesse acconsentito a quella proposta “indecente”. Se si fosse saputo che un gruppo di partigiani aveva vendicato un ragazzo di destra perché la violenza andava fermata, indipendentemente dalla provenienza. Forse l’escalation di violenza politica a Milano avrebbe avuto un arresto, forse quel nucleo di estremisti nati nell’oratorio si sarebbe disgregato, forse un giornalista sarebbe ancora vivo, forse… In realtà poi mi rispondo che i riflessi pavloviani della sinistra italiana si sarebbero attivati, Silvano C. ed i suoi compagni sarebbero stati presto trasformati in “infiltrati” dei servizi segreti, la magistratura rossa si sarebbe scatenata e la violenza sarebbe divampata ancora di più.

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I giornali parlarono di quell’aggressione solo un giorno ed il minimo indispensabile.

Il Corriere dedicò alla notizia lo spazio di una colonna grande come due necrologi sovrapposti con il titolo “Aggrediti con catene quattro giovani di destra” perché quel giorno ci furono altri tre pestaggi. “Il camerata P. è caduto a terra privo di sensi dopo una discussione con i compagni (testuale) “ spiegava con tono ironico e sprezzante Lotta Continua, il quotidiano diretto dal suocero di Daria Bignardi. Talvolta uno ha i parenti che si merita.

Giorgio Almirante telefonò in federazione a Milano per assicurarsi che nessuna vendetta fosse messa in atto per quelle vili aggressioni e quella vicenda venne presto dimenticata.

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Dicembre 72

Passarono quaranta giorni e finalmente mi ripresi. Mi ricordai che per caso due giorni prima dell’agguato avevo dimenticato nella sede del Fronte la mia cartella. Allora si usavano delle borse di grezza tela verde, che si compravano alla fiera di Senigallia a Milano o al mercatino militare di Livorno; era una moda bipartisan, come si direbbe oggi.

Un pomeriggio poco prima di Natale mi recai in motorino , eccezionalmente con il casco, in via Burlamacchi, zona Porta Romana, sede del Fronte della Gioventù di allora.

Quando vi entrai suscitai immediatamente nei presenti un misto di curiosità,indignazione e forse anche recondito timore. Avevo infatti i capelli rasati quasi a zero da cui si intravedevano le fresche cicatrici, l’occhio destro ancora contornato da un alone violaceo, il naso gonfio, l’aspetto pallido. Tutti mi circondarono per manifestarmi simpatia e solidarietà, mi ricordo che tra loro c’era anche G., la collaboratrice di un giornalista televisivo poi perseguitato dalla magistratura.

Mi fu portata la borsa ma prima di congedarmi, Ignazio volle sincerarsi che potessi uscire senza problemi. Da ore infatti pare stazionassero dalle parti della sede alcuni compagni con intenti minacciosi. Chiamò un ragazzo di cui evidentemente si fidava, era alto, magro con i capelli neri e un po’ lunghi. Doveva avere qualche anno meno di me, sui sedici anni.

Ignazio lo incaricò di fare un’ispezione tutt’attorno e solo quando il giovane , dopo una decina di minuti, tornò rassicurando tutti con un sorriso, io potei uscire per tornare a casa.

Lasciai la sede per un esilio di un anno a Roma, avrei ripreso a fare politica solo nel 1976, con Radio University.

Non rividi più quel ragazzo, il destino gli passò il testimone, pesante come una spranga.

✎ Eugenio Pasquinucci